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Sociologo, ricercatore e formatore nel campo dell’imprenditoria sociale, si occupa di accompagnamento dei processi di cambiamento organizzativo e di innovazione sociale. Flaviano Zandonai è membro della redazione della rivista “Impresa Sociale”, collabora con il magazine “Vita” ed è creatore ed editor, con Paolo Venturi, del blog “Tempi Ibridi”. Per il corso di alta formazione messo in campo dal progetto Catania Capacitybuilding è docente dell’area politico-sociale.

Ecco l’intervista

Sul tema dell’integrazione sociale ed economica dei migranti esistono non poche criticità che riguardano il modello delle migrazioni. In particolare, mancano strumenti d’innovazione sociale che riescano a coniugare lo sviluppo delle persone e la crescita economica e dei territori. Qual è la questione Meridionale? In che modo le imprese sociali del Sud possono (e devono) trovare la spinta propulsiva per ripensarsi come innovatori (e non soltanto cooperatori) sociali?

Negli ultimi anni l’acuirsi dei problemi legati non solo all’accoglienza delle persone migranti, ma più in generale alla tenuta dei sistemi di welfare dal punto di vista dell’efficacia e della sostenibilità ha certamente aguzzato l’ingegno in termini di innovazione di prodotto e di processo. L’innovazione è passata quindi da termine di moda legato a una retorica un po’ artificiale e fine a se stessa a necessità sempre più urgente di realizzare cambiamenti profondi positivi e duraturi. In una parola: impatto sociale. Anche il versante tecnologico dell’innovazione sembra assumere, da questo punto di vista, un orientamento più trasformativo ricercando punti di contatto con l’innovazione sociale. Basti pensare, ad esempio, ai supporti digitali che comunità di attivisti e cittadini attivi hanno utilizzato per favorire un’accoglienza più distribuita, autentica e mediata nei contesti territoriali. Oppure come queste stesse tecnologie hanno consentito di accelerare i percorsi di inclusione sociale e lavorativa mettendo in luce non solo i bisogni ma anche le competenze e le capacità delle persone migranti. Credo, in sintesi, che l’ecosistema di risorse sia sempre più ricco di opportunità e maturo in termini di consapevolezza. Si tratta “solo” di moltiplicare le occasioni di incontro e scambio tra i diversi attori che lo popolano.

Quanto impatta socialmente il fenomeno delle migrazioni nelle politiche pubbliche e nel Terzo Settore?

Credo che l’elemento d’impatto più rilevante, in particolare per il terzo settore, si collochi non solo a livello economico, occupazionale e naturalmente in termini di capacità d’inclusione. L’elemento che mi sembra ancor più rilevante lo definirei come impatto dal punto di vista reputazionale e di legittimazione sostanziale ad esistere ed operare. Mai come il tema delle migrazioni ha posto la questione di quanto e come il terzo settore persegue “nei fatti” e non solo in termini giuridico – normativi la sua missione di “interesse generale”. Certo il dibattito su questo tema è stato in buona parte monopolizzato da modelli di distorti, se non proprio ideologicamente falsi, di comunicazione pubblica, ma comunque il fatto che oggi il terzo settore sia chiamato a ricostruire un patto di fiducia con le proprie comunità mi sembra comunque un fatto rilevante e una grande opportunità.

È chiaro infatti che negli ultimi anni molti soggetti di terzo settore hanno “perso sintonia” con i tessuti sociali che li hanno originati e nei quali operano, perché si sono concentrati soprattutto sull’esecuzione di prestazioni ineccepibili dal punto di vista tecnico ma “sterili” rispetto al contesto. Ecco quindi che un ripensamento del proprio ruolo nell’ambito delle politiche migratorie non solo come braccio operativo di una Pubblica Amministrazione ormai sempre più rintanata sulla difensiva rispetto a questo tema, ma come attore di sviluppo di comunità inclusive e accoglienti può rappresentare una strategia rilevante per recuperare un posto centrale nella società e nei territori, anche se, va detto, che si tratta di un percorso lungo e complesso.

 A partire dal progetto CATANIA – Capacity Building, che è un esperimento di co-progettazione tra enti pubblici e privato sociale, in che direzione va il lo strumento della co-progettazione e co-programmazione per costruire interventi che rispondono al reale bisogno dei territori?

Intorno al tema della co-programmazione e soprattutto della co-progettazione c’è, giustamente, molta enfasi e aspettativa dopo decenni in cui a prevalere sono stati rapporti contrattuali tra Pubblica Amministrazione e terzo settore basati sulla competitività e l’estrazione del valore e non sulla condivisione di quest’ultimo e delle risorse necessario per produrlo. D’altro canto, credo sia importante sottolineare che proprio per quanto successo nel passato (e ancora oggi in realtà) gli strumenti normativi da soli non bastino. Serve un lavoro non solo formativo sul versante tecnico ma anche educativo a livello di forma mentis. Se non cambia anche l’approccio culturale alla programmazione e progettazione di servizi di interesse collettivo la qualifica “co” che li precede è destinata a volatilizzarsi. A mio avviso spetta in particolare al terzo settore spingere in questa direzione perché, va detto, anche nell’ambito della nuova impostazione normativa sancita dall’art. 55 del codice del terzo settore (dlgs n. 117/17) esso rappresenta il lato debole del partenariato. La Pubblica Amministrazione ha infatti il potere di avviare il processo, di scegliere gli enti di terzo settore con i quali coprogettazione, di rifiutare l’esito della coprogettazione, di siglare convenzioni per lo svolgimento delle attività con chi ritiene se i partecipanti non si dovessero accordare rispetto al modello di gestione. In sintesi, è più che concreto il rischio che la coprogettazione realizzi una sorta di inversione dei fini del suo modello se non viene presidiata e partecipata con capacità e consapevolezza da parte degli enti di terzo settore.

Come possiamo ripensare il sistema di accoglienza nella logica di Comunità de-istituzionalizzata?

Riprendendo alcune riflessioni in apertura credo che si possa dire che, seppur in modo non lineare, c’è un tratto peculiare che caratterizza molti fenomeni comunitari in questa fase storica, ovvero la loro intraprendenza. Non si tratta, in altri termini, solo di comunità di territorio che fanno da sfondo alle istituzioni sociali ed economiche e non sono neanche solo comunità di pratica che elaborano e condividono elementi di competenza e pratica comuni. Non sono neanche solo comunità di advocacy che reclamano cambiamenti a fronte di bisogni insoddisfatti. Sono, appunto, comunità intraprendenti volte cioè a realizzare trasformazioni gestendo “in proprio” o abilitando processi di coproduzione di beni e di servizi e che, a tal fine, si dotano di risorse e infrastrutture comuni. Un interlocutore sempre più sanamente sfidante sia per le imprese che per le istituzioni pubbliche ed anche per l’economia sociale e il terzo settore nelle sue versioni più istituzionalizzate. Un beneficio per il nostro Paese che ha un disperato bisogno di agenti di cambiamento. E il fatto che i change-makers siano anche soggetti collettivi e cooperativi non può che un positivo segnale di speranza che va il più possibile sostenuto affinché si realizzi.