Giornalista e scrittore, Luca Attanasio collabora con Vatican Insider (La Stampa), Domani, Atlante (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area MENA e Africa Subsahariana, è stato inviato dall’Iraq, l’Etiopia, la Tunisia, il Libano. Docente in Master in Peace-Building Management, è tra i docenti del percorso formativo promosso dal progetto Catania Capacitybuilding.
Lo abbiamo intervistato per approfondire alcuni temi legati al fenomeno migratorio e comprendere in che modo il giornalismo d’inchiesta, quello attento e scrupoloso che Attanasio realizza, può certamente contribuire a contrastare fake news e una visione distorta attorno al tema delle migrazioni.
Ecco l’intervista.
In Europa e in particolare in Italia si ha la sensazione di essere “accerchiati” dal fenomeno migratorio, spesso invece i dati non corrispondono alla realtà. Perché succede? Quanto influisce la poca informazione o la poca attenzione verso il giornalismo d’inchiesta?
«Su questo argomento si consuma la fake news più organizzata e insistita degli ultimi decenni. Nell’ultimo periodo, a causa della pandemia, il carico emotivo attorno al fenomeno si è notevolmente affievolito, anche se è sempre latente e credo che, non appena potremmo ricostruire un tempo di normalità, ritornerà ad essere al centro del dibattito. In Italia, in Europa e in America sono state adottate politiche orientate al consenso politico, appunto, e quindi a quello sociale ed economico. In realtà, negli ultimi sei/sette anni abbiamo assistito a un calo notevole di arrivi. Questo è successo non certamente grazie alle politiche assolutamente refrattarie nei confronti dei migranti, che sono state portate avanti dagli ultimi Governi, specie quello di centro-sinistra Gentiloni e Minniti. È impossibile non ricordare l’accordo siglato proprio da questo Governo con la Libia per contenere il flusso di migrazioni.
I dati però parlano, sono chiari. Anche quando c’è stato il boom di arrivi, durante l’apice della crisi siriana nel 2015 con un milione di ingressi nell’Unione Europea, i giornali, anche quelli più progressisti, i media e gli esponenti politici hanno contribuito a diffondere un clima di terrore. Parliamo di un milione di persone arrivate in un continente ricco, sviluppato e democratico, che se avesse voluto avrebbe potuto dare risposte concrete e strutturate. Al contrario, si è pensato di erigere muri e appaltare l’accoglienza con uno stato “democratico” come la Turchia. Proprio nel 2016, l’Europa è protagonista di un accordo con Erdogan per contenere il flusso di migranti dalla Siria e Iraq: sei miliardi di euro che l’UE avrebbe potuto dividere tra gli Stati membri per migliorare il sistema di accoglienza. L’accoglienza è un processo, un lavoro che certamente ha permesso a tanti cittadini italiani di formarsi e professionalizzarsi per rispondere ai bisogni dei migranti. Quando Salvini utilizza il tanto noto slogan “prima gli italiani” non fa altro che togliere in realtà il lavoro agli italiani, e i risultati del Decreto sicurezza lo dimostrano».
In un interessante articolo, che ha pubblicato su Domani, ha acceso i riflettori sul fallimento del sogno europeo che lascia spazio a muri e barriere (anche sociali) innalzate in ogni dove per fermare l’accesso ai migranti. Come è possibile ricordare ogni anno, a novembre, la caduta del muro di Berlino e accettare questa condizione? In questo quadro emergenziale e politico, che ruolo ha l’Italia?
«Esatto, la caduta del muro di Berlino fu celebrata proprio nel segno della fratellanza, della condivisone e della comunità. In realtà nessuno dice, o pochi lo affermano, che in questo trentennio sono stati eretti mille chilometri di muri fisici e non soltanto immaginari o sociali: sei volte tanto il muro di Berlino. Dove? In Bosnia, in Croazia e in alcune zone interne all’area Schengen. Questo va non soltanto contro ogni principio ma alimenta certamente la paura e l’odio nei confronti dei migranti. In tutto questo cosa ha fatto l’Italia? Ha azzerato la possibilità di entrare legalmente nel nostro Paese. Ottenere un visto oggi è un’impresa faticosissima, manca un metodo legale e un processo strutturato…come se nel 2021 fosse impossibile immaginare quote per ingressi, capire perché le persone scappano dai loro Paesi, lavorare affinché si concedano visti e costruiscano canali umanitari. Basterebbe ragionare scientificamente sul fenomeno senza ideali di destra o sinistra. Fare accoglienza in maniera corretta – e non soltanto umana, perché se l’umanità non possiamo esigerla, la giustizia sì – significa fare bene non soltanto ai migranti ma all’intera società che non può vivere in perenne conflitto».
Il corso di formazione che abbiamo messo in campo ha l’obiettivo di formare professionisti che nella sfera pubblica svolgono quotidianamente un lavoro di accoglienza. Quanto è importante questo dialogo tra pubblico e privato sociale per costruire un progetto di integrazione e inclusione reale?
«È un elemento fondamentale. Sono molto felice di far parte del progetto, è interessante l’eterogeneità dei partecipanti. In aula virtuale si crea un denso dibattito che si alimenta mettendo insieme più visioni, quella delle forze pubbliche di sicurezza, degli operatori sociali in campo, dei volontari, dei tutor, dei giudici minorili. Tutti hanno qualcosa da imparare e insegnare, gli interventi sono sempre preziosi e arricchiscono anche la mia formazione. Il risultato è un mosaico di informazioni, pensieri e dati che aiutano ad avere una visione ampia del fenomeno e comprendere cosa c’è dietro ogni viaggio, spiegandone ogni dettaglio. Mi ha colpito, per esempio, il pensiero di una partecipante. Una signora, madre adottiva di un bimbo nato in Congo, ha condiviso con noi la sensazione di vivere un sentimento contrastante: essere italiana, ci ha detto, diventa spesso un peso perché il nostro Paese ha contribuito allo sfruttamento del Congo; dall’altra però andare oltre e capire il fenomeno nella sua pienezza contribuisce a trovare alcuni elementi che le permettono di costruire una relazione sana con il figlio. Ecco perché il corso, costruito in sinergia con forze pubbliche e sociali, aiuta a leggere il fenomeno nella sua interezza e complessità».
Nel suo lavoro e nelle sue pubblicazioni ha raccontato il profumo delle storie, un mosaico di voci e volti che descrivono l’inferno che si cela dietro ogni viaggio. C’è una storia in particolare legata al nostro territorio che le è rimasta impressa e che vuole condividere?
«Ho raccontato l’inferno certo ma anche la bellezza che si cela dietro ogni storia, l’incanto che ho trovato e continuo a provare nell’incrociare lo sguardo dei tanti migranti. Una storia che mi piacerebbe condividere è quella di Mohamed, protagonista della seconda parte del mio libro Il Bagaglio. Mohamed perde, all’età di 9 anni, entrambi genitori nella guerra civile; a 13 anni fugge via dalla Costa d’Avorio affrontando un viaggio atroce dove subisce violenze e umiliazioni di ogni tipo. Quando arriva in Libia, il trafficante gli chiede di spogliarsi… non ha soldi, non ha nulla. Soltanto le foto dei genitori che vengono gettate in mare. Un gesto atroce che caratterizzerà per sempre la vita di Mohamed.
Un anno dopo arriva a Roma, viene accolto da Save the Children che gli regala una macchina fotografica. La perdita delle foto dei genitori ha lasciato in lui una sensazione di vuoto, che ha colmato appassionandosi alla fotografia e guardando il mondo attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica. Studia questa forma d’arte e diventa bravo tanto che alcune delle sue foto vengono esposte per una settimana al Museum di New York. Mohamed è oggi un fotografo affermato in tutto il mondo, che ha scelto da qualche anno di ritornare in Africa per “restituire” al suo Paese ciò che l’Europa gli ha donato. A Mali ha dato vita a dei laboratori di fotografia affinché i bambini e i ragazzi possano sviluppare competenze specifiche, trovare un’occupazione ed evitare la sofferenza del viaggio. Questa è tra le storie più significative che fa da sintesi a tante altre incrociate, tutte persone dal cuore enorme con la voglia di donarsi. Da queste storie dovremmo apprendere tanto: se mi fossi precluso la possibilità di ascoltarle, perché afflitto dalla paura dell’invasione o altro, quanta perdita ci sarebbe stata per la mia vita e per tutti quelli che hanno letto il libro o sono entrati in contatto con queste storie, con questi eroi moderni?».
Nel presentare le sue pubblicazioni ha tante volte incontrato le scuole. Come possiamo educare i giovani verso una visione differente della società, fatta di accoglienza e rispetto della multiculturalità?
«Raccontando storie. Quando vado nelle scuole, a volte nelle periferie estreme, quello che faccio è contestualizzare e smontare, attraverso una spiegazione calma e dettagliata, tutti i falsi miti che ruotano attorno al fenomeno dell’immigrazione. Serve far venire il dubbio, suscitare qualche punto interrogativo. Serve stimolare la curiosità attraverso la narrazione di storie che vedono come protagonisti ragazzi come loro, con la stessa passione per il calcio, con la stessa sostanza dei sogni. Le storie, se bene raccontate possono davvero cambiare un pezzetto di mondo. Vanno narrate nella giusta maniera, evitando il “pietismo” che non fa altro che relegare i migranti nel ruolo di “vittime” e non protagoniste.
Stay Human è il filo rosso che lega il suo pensiero e il suo lavoro… come possiamo rimanere umani davanti a un fenomeno migratorio che tocca tutti e che ci vede responsabili?
«Stay Human è una frase molto bella utilizzata da Vittorio Arrigoni, attivista morto a Gaza, nella chiusura dei suoi articoli. Stay Human sintetizza la straordinaria opportunità che tutti noi abbiamo nel far prevalere l’umanità su tutto. Se perdiamo questo concetto, perdiamo anche gli altri valori. Deve essere un punto di riferimento, anche se a volte non è sempre facile. I ragazzi che ho incrociato, le loro storie così complesse ma forti dovrebbero guidarci, fari da bussola per restare umani, sempre».