Abbiamo intervistato EDGAR JOSÈ SERRANO, docente del corso di alta formazione che abbiamo messo in campo per accompagnare gli operatori della Pubblica Amministrazione a migliorare il sistema di accoglienza di Catania. Intensa e interessante l’intervista che ci guida a comprendere a pieno il concetto di interculturalità, accendendo i riflettori su quelli che sono oggi le criticità del sistema di accoglienza italiano.Esperto nelle problematiche e nei processi interculturali, Serrano è venezuelano ma vive in Italia da tantissimo tempo. Ha una visione ampia e internazionale su quelli che sono i problemi di oggi legati all’immigrazione.
Dottore in Pedagogia, Master in Scienze Politiche ed esperto di cooperazione internazionale, Edgar Serrano vive e lavora attualmente a Padova dove è impegnato come Manager Didattico della Laurea Magistrale Internazionale in Local Development – Università di Padova.
Ecco l’intervista.
Come vede oggi la questione dell’interculturalità? Quali sono le prospettive su cui possiamo muoverci e quali invece le criticità che segnano il nostro sistema e che non ci permettono di fare un passo in avanti?
«L’interculturalità è un traguardo che richiede svariati e precedenti processi psico-socio-relazionali. Cioè, la nozione d’interculturalità implica aver raggiunto un alto livello di connessione empatica inter-relazionale ma anche un consapevole superamento della deformazione mentale che concepisce le culture gerarchizzate. Su quest’ultimo aspetto, sorprende che – anche nel mondo accademico – si parli tranquillamente e in modo positivo di “diversità culturale” o di “differenza culturale” piuttosto che di varietà culturale.
Ciò che voglio dire è che, dal punto di vista della prospettiva autenticamente interculturale, nessuno sa più di nessun altro. Semplicemente, sappiamo cose distinte. Con questa banalissima operazione di decostruzione abbiamo fatto a pezzi il deformato rapporto gerarchizzato tra le culture; è rischioso parlare di interculturalità. Oggi come oggi, essa non esiste in nessun luogo qui in Italia. Ciò che esiste -questo sì- è un multiverso culturale in interlocuzione. Quali le prospettive su cui possiamo muoverci? In quest’ottica diventa centrale l’approccio decostruttivo per cambiare i nostri occhiali mentali sul tema relazionale in quel multiverso di tradizioni culturali in cui siamo immersi.
Quindi, un aspetto da prendere sul serio per avanzare verso nuove prospettive, è la contraddizione che osservo tra paese reale e paese istituzionale sulla questione delle relazioni tra le culture. Sono due mondi che scarsamente s’incrociano. In altre parole, vedo, da una parte, un paese reale che è trasformato quotidianamente dalla presenza stabile di persone non italiane e, dall’altra, un paese istituzionale che stenta a rendersi conto di questo cambiamento strutturale che tale presenza stabile sta portando nei territori e nelle comunità.
Ritengo che ci sia una preoccupante sottovalutazione di questo aspetto non indifferente della vita quotidiana. Occorre far incontrare questi due mondi, ma non soltanto per promuovere politiche di sostegno o di aiuti vari. Far incontrare quei due mondi potrebbe favorire una trasformazione nella visione erogazionistica (dall’alto verso il basso e mediato dalla quasi esclusiva funzione economica) con cui il paese istituzionale concepisce il rapporto con questi nuovi italiani. Infine, le criticità. Quanto detto precedentemente è, probabilmente, una delle criticità più importanti».
Se dovessimo puntare l’accento sui percorsi d’integrazione che l’Italia ha messo in campo negli ultimi anni, potremmo parlare d’innovazione?
«La mia personale visione di questo aspetto è che il “modello d’integrazione” che si è seguito fino ad oggi sia fallito perché, da parecchio tempo, è venuta a meno l’offerta pubblica d’integrazione. In altre parole, le autorità istituzionali pubbliche (governo, regioni, province e comuni) hanno smesso di promuovere, sostenere e finanziare con convinzione politiche per l’integrazione.
I nuovi italiani, per sopravvivere a questo abbandono istituzionale, innescano strategie di integrazione “fai da te”. La conseguenza di tutto ciò è alla vista di tutti: da un lato, comunità locali indifferenti e, in alcuni momenti, ostili nei loro confronti e, dall’altro, un loro auto-isolamento sociale all’interno delle comunità dove abitano stabilmente. Poi li critichiamo perché … “ loro tendono a ghettizzarsi” (sic!). Insomma, il paese non si è ancora dotato di una seria e valida strategia per governare la presenza stabile dei nuovi italiani, malgrado questa presenza sia, ormai, molto consistente dal punto di vista demografico.
Quando affermo che il paese non si è ancora dotato di una seria e valida strategia per integrare, non sto parlando di strategia di Governo: una legge sull’immigrazione o un decreto flussi non costituiscono una strategia. Una strategia è, invece, un orizzonte di lungo respiro entro cui collocare il paese e che possa mantenersi nel tempo, indipendentemente dallo schieramento politico che governi nei prossimi 10-15 anni. Insomma, la strategia-Paese di cui parlo dovrebbe rispondere alla domanda: “Che cosa vogliamo fare con tutta questa gente che sta arrivando e si sta fermando qui e di cui abbiamo tanto bisogno, anche per ragioni demografiche?” Occorre, insomma, costruire una via italiana alla governance del processo di accoglienza/integrazione che tenga conto del tipo di paese che vogliamo costruire negli anni a venire».
Lo scoglio a cui tutti siamo chiamati a rispondere non è più “quanto integrare” ma come costruire comunità? Come superare dunque le logiche assistenzialistiche per costruire percorsi di empowerment che vedano i migranti attori e protagonisti?
«Per rispondere a questa domanda, devo certamente fare una premessa. La medicina contemporanea si avvale, spesso, di un modello interpretativo conosciuto come paradigma indiziario. Con esso si vuole indicare la possibilità che nascano eventi complessi da segnali apparentemente insignificanti. L’aspetto “indiziario” sarebbe, dunque, rivelatore di situazioni che, evolvendosi nel tempo ed espandendosi nello spazio, diventano oggetto d’attenzione e, quindi, non più trascurabili. A questo punto Lei mi potrebbe dire: “ma cosa c’entra questo con ciò di cui stiamo parlando?” C’entra, c’entra. Eccome …Tendenzialmente, tutti gli esseri umani desideriamo essere parte di una comunità dalla quale ci aspettiamo di essere accettati e apprezzati, innanzitutto, per ciò che siamo e, al tempo stesso, per ciò che facciamo.
Ciò che desidero sottolineare è che dobbiamo spostare un po’ più in là l’idea del fare comunità e pensare al “fare comunità educante.” Cioè, al come educare le nostre comunità e i suoi attori a prendersi cura dell’altro, ad accogliere e a ricostruire i legami sociali in grado di creare ricchezza relazionale per le attuali generazioni ma, soprattutto, per quelle future. Questa prospettiva inclusiva supera la perversa logica del “noi” e “loro.” Cioè, finché si continuerà con il gioco di concedere partecipazione e rappresentanza ai nuovi italiani, continuerà a prevalere la logica del “noi e loro”. E, finché questa logica continuerà a prevalere, i nuovi italiani, le istituzioni locali e i residenti nativi resteranno distanti sul piano relazionale e quindi senza alcuna possibilità di riflettere, insieme, su quel “come” di cui c’è tanto bisogno per immaginare la costruzione di una convivenza possibile e orientata al rafforzamento della coesione comunitaria.
Un percorso che voglia far prevalere la logica del coinvolgimento e della responsabilizzazione dei nuovi italiani non può essere costruito concedendo diritti/opportunità ma riconoscendo e legittimando tali diritti/opportunità nel sociale e presso le istituzioni. Questa logica del riconoscimento, infatti, presuppone che siano gli stessi nuovi italiani residenti a dover compiere operazioni condivise di diagnosi del contesto in cui la loro vita quotidiana si esprime e di essere in grado di avanzare – loro- proposte percorribili alle criticità (ma anche alle potenzialità) individuate.
Siamo tutti d’accordo che il coinvolgimento (ancora più della partecipazione!), è un potente strumento di responsabilizzazione perché impegna i nuovi italiani alla crescita sociale, civile e culturale delle loro comunità di residenza. Nella misura in cui quest’operazione si compie, loro non entrano soltanto in un terreno di conoscenza, di rispetto e di apprezzamento delle regole che configurano la convivenza ma iniziano anche a dare il loro contributo alla stesura di altre nuove regole. L’orizzonte politico entro il quale inquadrare questo nuovo sistema di regole potrebbe configurarsi come democrazia multiculturale di prossimità.
Ritengo, insomma, che a livello comunitario (quindi dal basso) i nuovi italiani residenti possano e debbano essere coinvolti in tutte le questioni che riguardino il territorio in cui essi vivono. Non mi stancherò mai di combattere la perniciosa idea che considera che i nuovi italiani vadano interpellati ed eventualmente chiamati a partecipare soltanto quando si tocchino argomenti riguardanti il “fenomeno immigratorio” o “la presenza straniera.” Ciò di cui tutti dobbiamo renderci conto è che, se in una determinata comunità mancano, o non sono garantiti, determinati servizi o diritti pubblici, anche i nuovi italiani residenti ne subiscono le conseguenze.
Se questo è vero, perché lasciare fuori i nuovi italiani dal più generale dibattito pubblico sul presente e sul futuro delle loro comunità di residenza o, più in generale, dell’Italia in quanto tale? Chi ha mai stabilito che i nuovi italiani debbano parlare quasi solo di questioni legate ai temi dell’immigrazione? Soltanto un certo pregiudizio politico-culturale può limitare l’interessamento, il coinvolgimento e il diretto protagonismo dei nuovi italiani ai soli “problemi” dell’immigrazione.
In breve: i nuovi italiani vanno riconosciuti e legittimati per quello che sono: parte della comunità e non delle comunità a parte. Alle organizzazioni che si occupano delle loro situazioni, ai partiti politici, ai sindacati e alle istituzioni pubbliche locali tocca facilitare questo processo di riconoscimento e di legittimazione ma non condurlo! Altrimenti, parlare di empowerment dei nuovi italiani o di superamento delle logiche assistenzialistiche nei loro confronti, non avrà nessun senso. Proprio nessuno».
Nel dibattito politico italiano molto spesso il fenomeno migratorio è legato al tema della sicurezza dei cittadini, questa retorica rischia certamente di provocare due effetti: mettere in ombra il tema dell’integrazione sociale, culturale, economica dei migranti e associare l’immigrazione, specie se clandestina, alla criminalità. Come abbattere questo muro di ostilità e indifferenza?
«Non c’è dubbio che l’argomento della sicurezza rappresenti uno degli aspetti della convivenza che ha monopolizzato l’interesse pubblico. Probabilmente il limite di questo dibattito sta nell’aver impostato la riflessione quasi esclusivamente sugli aspetti securitari del fenomeno. La conseguenza è stata il concentrare la discussione sulla criminalità diffusa (specialmente se vincolata alla presenza dei nuovi italiani), sulla clandestinità straniera e altri tipi di situazioni considerate come “patologie sociali” e, perciò, da reprimere in modo deciso per garantire tranquillità psicologica ai cittadini. Ma, siamo sicuri che l’approccio securitario sia l’unico percorso possibile con cui analizzare la percezione di insicurezza che alimenta le paure dei nativi?
L’indebolimento del sistema di tutele sociali, dei valori condivisi di solidarietà nelle relazioni sociali; la crisi di fiducia nel futuro e la sempre più prevalente logica del “si salvi chi può” creano le condizioni per l’espandersi del sentimento di insicurezza psico-esistenziale e sociale. Di questo però, si parla poco o non se ne parla affatto. Anzi, questi aspetti vengono strumentalmente proposti quale prova del “fallimento” di certe politiche pubbliche in materia di accoglienza e orientati a identificare, a tutti i costi, i responsabili di questa situazione di insicurezza. Questi sono, ovviamente, gli “altri” (ecco che rientra il famoso “noi – loro”).
La povertà relazionale, la solitudine, l’auto-isolamento sociale e le diffidenze di tutti contro tutti, sono indiscutibili fattori di insicurezza. Ma anche un lavoro precario o l’essere disoccupati ci fa sentire insicuri; un welfare smantellato genera cittadini incerti, insicuri e impauriti facilmente influenzabili dalla propaganda ad effetto sulla “criminalità diffusa”, “l’insicurezza ovunque”, “la presenza ovunque di clandestini”, ecc., ecc. In breve: la logica securitaria strumentalizza cinicamente la pancia dei cittadini nativi con l’obiettivo perverso di creare guerre tra poveri.
Personalmente penso che una politica veramente innovativa in materia di sicurezza debba inserire, tra le sue priorità, una lotta convinta contro la povertà relazionale, cioè, l’attivazione di modelli collaborativi, responsabilizzanti e di buon vicinato. Questi aspetti collaborativi, responsabilizzanti e di diretto coinvolgimento dei residenti, saranno la migliore risposta comunitaria agli imprenditori della paura e al loro approccio securitario. Al tempo stesso, dobbiamo rompere anche con quella forma di paternalismo istituzionale che vede i nuovi italiani come soggetti a cui dobbiamo “offrire” sostegni di ogni tipo. Insomma, la legittimazione sociale e l’autonomia di progettualità dei nuovi italiani dev’essere il frutto di una loro diretta e responsabile conquista psicologica, morale, politica e culturale anziché una burocratica concessione istituzionale/amministrativa».
Se dovessimo invece tracciare una visione ampia e internazionale, quali sono i movimenti geopolitici di oggi e quali – secondo Lei – sono i Paesi che rispondono meglio?
«Se delimitiamo la riflessione all’argomento migrazioni, la situazione globale mi sembra completamente ingovernabile. Basti pensare ad alcuni punti critici del pianeta: oltre al Mediterraneo e alla cosiddetta “rotta dei Balcani”, abbiamo la gravissima situazione del confine tra gli USA e il Messico (che, a sua volta, subisce le pressioni migratorie “di passaggio” del sud e centroamerica verso gli USA), la forte mobilità intra-continentale in Africa e l’America Latina; la situazione australiana e le dinamiche asiatiche verso il Medio Oriente e all’interno dell’Asia stessa.
Ma la questione su cui dobbiamo puntare i fari della riflessione è il motivo prevalente che spinge interi popoli a spostarsi. Certamente, i conflitti, le persecuzioni delle dissidenze, la mancanza di libertà e l’instabilità politica di tantissimi paesi del Sud globale, continuano ad essere un motivo scatenante dello spostamento di massa. Ma, negli ultimi tempi, è la questione del cambiamento climatico il principale fattore di spostamento. Tutte le agenzie e gli organismi autorevoli che studiano i processi di mobilità globale delle persone, coincidono nel sostenere che i rifugiati per motivi climatici sono (e saranno ancora di più in futuro) la grande sfida. Il rapporto, infatti, tra chi scappa dovuto alle guerre e che scappa per motivi climatici e di 1 a 4.
L’innalzamento della temperatura del pianeta, lo scioglimento dei ghiacciai, l’avanzamento della desertificazione dovuto alle stragi contro la biodiversità, l’aumento della capacità distruttrice degli uragani in alcuni punti specifici del pianeta (in particolare l’area dei Caraibi e del sudest asiatico) e lo stendersi della siccità, sono i fenomeni più importanti che stanno incidendo in un aumento senza precedenti dello spostamento delle persone.
Insomma, possiamo affermare che c’è una sorta di “Sesto Continente” in movimento e che sta mettendo a dura prova la capacità degli organismi internazionali di governare questo continente alla deriva o di applicare politiche di contenimento delle mobilità, proprio perché la fonte primaria e causa maggiore dello spostamento, si deteriora sempre di più. Da considerare anche il forte sbilanciamento demografico-generazionale tra paesi arricchiti e paesi impoveriti. I primi hanno popolazioni con alto tasso di persone anziane; i secondi hanno popolazioni sempre più giovani e in costante aumento. Questo aspetto è particolarmente vistoso nell’area nordafricana in relazione alla vicinanza geografica con lo spazio UE.
Infine, la crisi della cooperazione internazionale. Il fattore Covid-19 sta costringendo i tradizionali paesi donatori a rivedere la loro politiche di cooperazione per affrontare le emergenze interne provocate dalla pandemia. Un crollo della cooperazione implica lasciare campo libero alla logica della disperazione di tanti popoli e, perciò, ad una sempre più spinta ondata migratoria. Ad oggi, questo sembra essere il panorama globale della situazione.
Ben venga, allora, una forte attenzione internazionale sul tema del cambiamento climatico e azioni concrete per contenere il disastro contro la nostra Casa Comune. Il programma del Recovery Fund dell’Unione Europea va in quella direzione. Sarà, però, la volontà politica mondiale, regionale e nazionale a dover determinare se vogliono o no contenere lo spandersi di quel Sesto Continente di cui ho parlato prima».